Si può soffrire di "bulimia narrativa"?
Dell’insensata voglia, dopo le prime righe di un libro
che ti cattura e ti tiene stretto a se, di leggerlo tutto di un fiato passando
notti in bianco mangiando e camminano per strada finirlo e poi.
Nulla.
Il vuoto più totale, una voragine dentro che gli
uomini definirebbero banalmente “sindrome pre-mestruale”, ma che con gli ormoni
nulla centra.
La sensazione di panico, il pianto rimandato in gola e
la consapevolezza guardandosi allo specchio che sì, non si è tanto normali.
Senza scadere banalmente nell’autoanalisi e nello
studio di tutto ciò che finisce in –onscio, a memoria ne ho sempre sofferto.
Da bambina leggevo compulsivamente un libro dietro
l’altro: a volte mi svegliavo nel sonno e accendevo la luce sul comò e alle tre
di notte mi mettevo a leggere, sperando che i miei genitori non fossero
svegliati dal minuscolo bagliore intruffolatosi sotto la porta.
Nessuno capiva, io in primis, perché, terminato un
romanzo o un libretto dei “Piccoli Mostri”, dovessi immediatamente iniziarne un
altro.
Ho attraversato fasi di “anoressia”, quando iniziare
un libro è impossibile e tutte le scuse, gli impegni e i pensieri, sono ottime
giustificazioni per non farlo.
Trovare il giusto compromesso vorrebbe dire
raggiungere l’equilibrio tra la necessità di immedesimarmi in storie, l’amore
per lo stile di scrittura di un autore, la sensazione di estraneazione e
rilassatezza che genera isolarsi fra le pagine di un vecchio libro usato e il
totale rifiuto ad avvicinarmi anche solo ad una libreria.
Sono momenti che ciclicamente si ripresentano.
Metafore ormai più reali degli stessi sentimenti ed
emozioni che dovrebbero celare o spiegare.
Mettere nero su bianco queste sensazioni dopo anni di
“malattia”, può essere il primo passo per l’agognato bilanciamento delle
stesse?
P.S.: Come dice il detto "chi non muore si rivede", da oggi non mi nascondo più. Non sarò Salinger ma non ambendo al Pulitzer posso continuare a scrivere serenamente. Benvenuti o bentornati.